CLEMENTE CORTE

CLEMENTE CORTE

di Donato D’Urso

A te capitano auguro due chilogrammi di saviezza”

Clemente Corte era originario di Vigone nel Pinerolese, dove nacque nel novembre 1826. S’avviò alla carriera militare, entrando a sedici anni nell’Accademia di Torino. Si comportò valorosamente nella prima guerra d’indipendenza come ufficiale d’artiglieria, a Custoza meritò menzione onorevole, a Novara medaglia d’argento. Qualche anno dopo, lasciato l’esercito, si trasferì a Londra, dove sposò la gentildonna Elizabeth Baker e visse insegnando matematica e storia militare. Divenne un appassionato ammiratore della società anglosassone e cultore dei suoi costumi.

I campi di battaglia, però, continuarono a esercitare su di lui un forte richiamo e andò nell’Africa del nord, aggregato all’esercito francese impegnato nella conquista dell’Algeria.

Nel 1855 Corte partecipò all’avventura della Legione anglo-italiana, arruolata per la guerra in Crimea dagli inglesi, che volevano rimpolpare le loro forze con ‘legioni’ formate da stranieri, in sostanza con truppe mercenarie. Fatta eccezione per i vertici, gli ufficiali erano italiani. L’ingaggio era buono e presto si contarono alcune migliaia di volontari italiani. Tra i tanti, troppi aspiranti ai gradi di ufficiale (oltre 700!) furono solo 27 i selezionati, tra cui Clemente Corte, che aveva il vantaggio di vivere in Inghilterra e di avere molte conoscenze non solo linguistiche. Egli fu ammesso col grado di maggiore e incarico di capo di stato maggiore. La Legione anglo-italiana ebbe vita breve e travagliata e, di fatto, non ebbe modo d’essere impiegata in Crimea. I congedati tornarono a casa con una discreta buonuscita.

Nella primavera del 1859 Corte tornò di nuovo in Italia, per partecipare alla seconda guerra d’indipendenza, ufficiale nei Cacciatori delle Alpi di Garibaldi. Per la condotta bellica meritò la croce di cavaliere dell’Ordine militare di Savoia. A Biella incontrò il vescovo Giovanni Pietro Losana, pure lui originario di Vigone, che volle ospitare Garibaldi nell’episcopio e, alla partenza dei Cacciatori, disse: «Non auguro loro del coraggio, che ne hanno forse già troppo, bensì auguro buona fortuna alla loro impresa […] A te, poi, capitano Clemente Corte, auguro due chilogrammi di saviezza».

L’anno dopo, al momento della partenza dei Mille da Quarto, il trentaquattrenne Corte si trovava in Inghilterra. Il 25 maggio 1860 da Genova indirizzò a Garibaldi questo messaggio: «Mio caro Generale, il trovarmi a Londra mi ha impedito di partire con Lei e ne ho molto rammarico. Sono qui da qualche giorno con Medici, e spero che presto potremo raggiungere Lei e gli antichi nostri compagni». Nella notte tra l’8 e il 9 giugno 1860 Corte s’imbarcò con un migliaio di volontari, per buona parte lombardi, sul clipper Charles and Jane al comando del capitano statunitense Wathson, che doveva navigare a rimorchio dell’Utile guidato da Luigi Molina, ma al largo della Corsica le due imbarcazioni furono intercettate da una nave da guerra napoletana e costrette a dirigersi a Gaeta, dove rimasero sino al 30 giugno, venendo infine rilasciate per intervento delle autorità diplomatiche statunitensi e sarde, con aperto sostegno di quelle inglesi, che eccepivano l’illegalità della cattura avvenuta in mare aperto.

Le due navi garibaldine rientrarono a Genova, Corte e gli altri ripartirono per la Sicilia il 15 luglio sul piroscafo francese Amazon. Arrivarono a Palermo quando Garibaldi s’apprestava a partire verso Milazzo. Furono trasbordati e avviati seduta stante contro il nemico: molti di loro non avevano avuto alcun addestramento militare. Nello scontro di Milazzo Corte fu ferito seriamente ma più tardi poté riprendere la campagna nel Meridione, al comando di una brigata della divisione Medici.

Nell’estate 1862 egli fu ancora una volta con Garibaldi, ad Aspromonte. Quando arrivò a Palermo, temendo che le autorità potessero impedire lo sbarco, ricorse a un’astuzia: s’appuntò sull’abito il nastro della croce di Savoia, affrontò il carabiniere di guardia alla scaletta della nave e, con tono deciso, gli disse in piemontese: – Pieme la pcita valisa, e dis a to coulounell Basso che a pêna colà a terra i andrëu da chiel. Il carabiniere, sconcertato, credendo di avere dinanzi un generale, lo salutò militarmente e lo fece passare.

Dopo lo scontro di Aspromonte, un gruppo di ufficiali, tra i quali Corte, fu rinchiuso nel forte di Fenestrelle. Dopo alcune settimane tutti furono rimessi in libertà grazie ad un’amnistia. Quando di lì a poco il governo Rattazzi fu sostituito da quello Farini-Minghetti, in una lettera privata Corte s’espresse così: «Scappando dalla biscia incontreremo una vipera».

Nel maggio 1866, in previsione della nuova guerra contro l’Austria, fu costituito il Corpo volontari italiani, affidato a Garibaldi. Accorsero da ogni parte e in breve raggiunsero il numero di 40.000. A causa della massa di persone e dei tempi ristretti, mancò un po’ tutto: vestiario, tende, cucine da campo, muli e cavalli, armi, munizioni, carte geografiche, attrezzature sanitarie. I quadri ufficiali erano formati in gran parte dai veterani della guerra del 1859 e della campagna del 1860.

Garibaldi affidò a Corte il comando della 4ª brigata, composta dal 1° e dal 3° reggimento. Il 3 luglio 1866 quei reparti combatterono sul monte Suello nel Bresciano. Poco prima della battaglia, ai volontari che si lamentavano per la fitta pioggia, Garibaldi rivolse queste parole: «Avete freddo! Presto vi scalderete col fuoco». Corte andò all’assalto per cacciare gli austriaci dalle loro posizioni, la lotta fu aspra e lo stesso Garibaldi, accorso in prima linea, fu ferito alla coscia da ‘fuoco amico’. Solo dopo cinque ore gli austriaci abbandonarono le loro posizioni. Le perdite tra i garibaldini furono di oltre trecento uomini. Per la sua condotta, nel dicembre 1866 Corte fu insignito dell’onorificenza di commendatore dell’Ordine militare di Savoia. Anni dopo fece parte del comitato costituito per edificare, nel luogo della battaglia, un sacrario, inaugurato nel 1885.

Nel 1867 Corte fu, per l’ultima volta, al seguito di Garibaldi nella campagna nel Lazio, culminata nella sconfitta di Mentana. La sua carriera delle armi finì allora.

Entrò in politica, eletto deputato di Vigone, poi di Rovigo. Alla Camera sedette a sinistra. Dotato di notevoli capacità oratorie, intervenne sovente, soprattutto su questioni militari. Partecipò alle discussioni sulla piaga del brigantaggio meridionale, che considerò essenzialmente questione sociale. La sinistra democratica offrì al governo di inviare nuclei di volontari nel Meridione ma la reazione della stampa e dei circoli moderati fu negativa: i prefetti furono invitati a non tollerare reclutamenti e a sciogliere bande e riunioni.

Nelle questioni ecclesiastiche Corte s’espresse sempre contro ogni cedimento nei confronti della Chiesa cattolica. Nel marzo 1872, dopo la morte di Mazzini a Pisa, fu tra i primi a rendere omaggio alla salma del grande patriota. Nel 1876 fece parte della commissione istituita per riformare la legge elettorale, allargando il suffragio e adottando lo scrutinio di lista.

Il deputato Corte sovente polemizzò col ministro dell’Interno Giovanni Nicotera, che peraltro proveniva pure lui dalle file garibaldine. Nel dicembre 1877 Corte presentò un’interpellanza sulla violazione del segreto telegrafico, che provocò un terremoto politico. Questi i fatti con le parole di Indro Montanelli: «Un principe russo di stanza a Roma aveva ricevuto dal suo Paese un telegramma in cui un tal Alessandro gli comunicava che il figlio Vladimiro era stato ferito a una gamba. Nicotera aveva creduto che il mittente fosse lo zar Alessandro che dava notizia di un attentato contro il figlio Vladimiro e, prima che al destinatario, la fece comunicare ai giornali che la pubblicarono con grandissimo rilievo. Essa fu subito smentita, confermò quello che già si sapeva: e cioè che il Ministro degl’Interni violava sistematicamente il segreto telegrafico. L’indignazione fu tale e – quel che è peggio – condita di tali risate e corbellature che Nicotera dovette andarsene». Da allora si disse che Nicotera era inciampato nella gamba di Vladimiro e lo sgambetto glielo aveva fatto Corte.

Nel 1878 il primo governo di Benedetto Cairoli, con Giuseppe Zanardelli ministro dell’Interno, dispose un vasto movimenti di prefetti, sostituendo molti funzionari giudicati ‘nicoterini’. Per la sede di Palermo venne scelto Clemente Corte. Fu un’esperienza né facile né felice. Scrisse un contemporaneo: «Un prefetto nuovo nell’amministrazione, ignaro degli uomini e delle cose che lo attorniavano non poteva ottenere grandi risultati. Al poco successo del Corte a Palermo contribuì il malumore dei siciliani, per certi articoli di giornali ufficiosi poco benevoli alla Sicilia, articoli che, a torto o a ragione, si dissero ispirati dal Corte». Le dimissioni dall’incarico arrivarono dopo solo otto mesi. Più duratura fu l’esperienza come prefetto di Firenze, dal 1879 al 1884. Nel febbraio 1880 arrivò la nomina a senatore, onore ambito da tutti i prefetti delle sedi importanti, specie delle ex-capitali.

Il soggiorno fiorentino di Corte fu caratterizzato da tensioni, come avveniva un po’ ovunque, tra l’autorità prefettizia e quella ecclesiastica – rappresentata dal vescovo Eugenio Cecconi – a cominciare dal campo educativo.

Di altro genere e un po’ piccante fu la scoperta di una coppia di giovani amanti, nelle persone di Gabriele d’Annunzio di anni 20 e Maria Hardouin dei duchi di Gallese di anni 19. I due, travolti da passione, avevano compiuto una fuga d’amore da Roma a Firenze dopo che nella capitale, qualche settimana prima, avevano compiuto quello che il poeta in una lirica chiamò Il peccato di maggio. L’aristocratica famiglia della giovane era contraria a quella relazione, poiché giudicava Gabriele un arrivista e cacciatore di dote, senza arte né parte. Un deputato amico corse a Firenze e chiese al prefetto di compiere un intervento di autorità, per costringere Maria a rientrare in famiglia. Quando Corte bussò alla camera dell’hotel dove alloggiavano i due colombi, dall’interno d’Annunzio pregò di attendere e, infine, comparve insieme con la compagna, entrambi disinvolti e sorridenti. La ragazza, si narra, offrì persino i confetti ma, anni dopo, pronunciò una frase al vetriolo: «A quell’età amavo la poesia, ma avrei fatto meglio a comprare un libro».

La fine della carriera di Corte fu legata a un’accesa diatriba col prefetto di Torino, Bartolomeo Casalis, relativamente ai traffici di un lestofante, tale Eugenio Strigelli. Corte accusando il ministero di non avere tutelato la sua onorabilità e ritenendo d’essere vittima di un’ingiustizia, abbandonò definitivamente la carriera prefettizia.

Ritiratosi a Vigone, si dedicò agli studi storici e al giornalismo, oltre che all’impegno di senatore. Scrisse un’opera in due volumi dal titolo Le conquiste e la dominazione degli Inglesi nelle Indie, per dimostrare agli italiani – buoni ultimi a partecipare alla corsa alle colonie – le difficoltà di fondare imperi in paesi lontani. Durante la discussione parlamentare sull’invio di una spedizione militare in Africa, parlò di pericolosa avventura.

Nel 1893 Clemente Corte fu promosso tenente generale della riserva. Morì a Vigone il 20 marzo 1895 e non volle essere commemorato in Senato. Il paese natale gli ha intitolato una piazza e dedicato un monumento con busto bronzeo.